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lunedì 30 maggio 2011

Equitalia o IN-Equitalia? Questo è il problema.....

Equitalia o in-Equitalia?
Questo è il problema.... Diremmo se volessimo parafrasare il conosciutissimo passaggio dell'Amleto di Shakespeare.
Cos'è Equitalia? Beh, per saperne di più, per i pochi che non ne avessermo mai sentito parlare, rimandiamo alla seguente pagina. Di base Equitalia è una società privata a completa gestione pubblica (è per metà dell'Agenzia delle Entrate e per metà dell'INPS) che si occupa di riscuotere tasse, balzelli d'ogni sorta e tipo e multe non riscosse.
Il nome presupporrebbe l'espletamento di un compito compensativo delle ingiustizie presenti in Italia.
O qualcuno pensa che nella nostra nazione non vi siano ingiustizie, sociali, penali o economiche che siano?
Equitalia sta incontrando numerose critiche e opposizioni, sia di natura giornalistica che di protesta fatta da persone in carne ed ossa nelle strade e nelle sedi opportune.
Ma probabilmente tutto ciò che è successo non è niente con quello che accadrà qui in Italia se chi di dovere non provvederà ad apportare vistosi cambiamenti nei confronti di questo ente.
Le critiche le avrete sentite anche voi oppure qualcuno di voi potrebbe aver vissuto sulla propria pelle le iniquità di chi ha l'equità solo nel proprio nome.
Qualcuno mi potrebbe accusare di essere un sostenitore dell'evasione fiscale e del qualunquismo che impera nella nostra nazione.
Vorrei ribadirlo, come in precedenza esposto, per il sottoscritto è corretto pagare le tasse, tutte le tasse.
Ma il sottoscritto pensa anche che lo stato esista per servire il cittadino e non il contrario.
Siccome le cose non sono sempre sullo stesso piano, esistono delle scale di importanza relativa.
E il principio che le tasse devono essere eque e funzionali viene PRIMA del fatto che tutti i cittadini le debbano pagare.
Vogliamo fare un esempio? Facciamolo.
Parliamo dei contributi INPS. I contributi INPS "dovrebbero" essere dei versamenti che una persona effettua ad un gestore pubblico affinchè questo possa restituire una data somma mensile (pensione) nel momento in cui chi versa non sia più nelle condizioni di potersi sostenere con il proprio lavoro.
Una sorta di previdenza, diciamo. Io metto da parte oggi, così un domani che non posso lavorare quei risparmi mi torneranno utili.
La cosa ha un senso, certo!

Ma perchè è obbligatorio? E perchè vi sono degli importi minimi di versamento?
L'obbligatorietà dei contributi INPS può trovare risposta nel fatto che i soldi versati all'ente previdenziale servono per altre ragioni, quali ad esempio gli ammortizzatori sociali, quali cassa integrazione e simili. Beh, allora i contributi INPS non sono solo un accantonamento per il mio futuro ma una sorta di quota associativa, sul tipo dei consorzi fidi, per cui tutti versano nel caso in cui alcuni ne abbiano bisogno.
Giusto? Già, è proprio così!
Se non fosse che non tutti quelli che versano hanno il diritto a ricevere degli ammortizzatori sociali. Un lavoratore autonomo non ha questo diritto. E allora perchè ha l'obbligo di versare i suoi contributi? Perchè è un obbligo e non una facoltà?
E perchè vi sono delle quote minime a prescindere dai ricavi?

Se io avessi un'assicurazione pensionistica di tipo privato con l'accordo di versare una quantità X al mese, nel momento in cui non avessi le sufficienti entrate per pagare, chiederei che il mio PIANO DI ACCUMULO (si chiama così) venga semplicemente sospeso. E se venisse interrotto, riceverei nella data prevista la somma che salterebbe fuori sa un semplice calcolo di matematica finanziaria.
Invece l'INPS pretende da molti dei pagamenti non proporzionati alle capacità reddituali di chi versa per le proprie esigenze di cassa. Incassi dai lavoratori di oggi per pagare i pensionati di ieri. Altrimenti il sistema salta.
Ma allora non è possibile esaminare questo fatto?
Si parla di non poter togliere alle persone i diritti acquisiti? Qualcuno mi può spiegare perchè questa apparente equa legge debba causare che altre persone siano VESSATE da richieste ingiuste? Cioè se io non prenderò la mia futura pensione, nonostante i miei versamenti, perchè non si può ridurre la pensione che qualcuno prende da 10 o 20 anni?
Equitalia usa metodi da stato di polizia per riscuotere cifre che non sono EQUE su imposte che non sono EQUE. Perchè dovrei pagare il 130% di una somma che non sono riuscito a versarti?
Vi è un dolo? Ai danni di chi? Questo INPS lo dovrebbe spiegare. Perchè se anche vi fosse, la responsabilità di chi è? Del contribuente o dell'INPS stessa?
Sarebbe come se un negoziante citasse in tribunale un cliente che non lo ha pagato come responsabile del fatto che egli non ha pagato i suoi fornitori. Non funziona così. Ognuno è responsabile dei suoi pagamenti. E ogni struttura, compresa l'INPS, dovrebbe avere un suo metodo per gestire le inadempienze.
Non sto a elencare tutte le cose che sono inique in Equitalia.
E' iniquo che per un piccolo debito, una persona abbia degli atti giudiziari su tutti i suoi beni.
E' iniquo che le cifre richieste vengano continuamente aumentate di more e costi. E' una sorta di usura legalizzata.
E' iniquo che i casi di mancato pagamento non vengano esaminati da un punto di vista etico e di società civile invece che semplicemente da un punto di vista burocratico.
Vivo in una città in cui il comune (a torto o a ragione) eroga dei fondi per sovvenzionare gli studi primari ai figli dei Rom presenti. Una città in cui un lavoratore autonomo in difficoltà non solo non riesce a pagare quanto deve a causa di norme ingiuste e una pressione fiscale impossibile da sopportare ma in cui si viene messi all'indice e crocifissi per averci provato.
Quale è l'esito prossimo futuro?
Che non vi sarà lo stimolo a rischiare e a provare a fare nuova imprenditorialità.
Questo già succede.
Questo già accade.
E il passo successivo è la scorciatoia della criminalità o dell'evasione.
Equitalia è un problema politico. E' un problema non la struttura ma i motivi per cui è lì.
Equitalia non è al servizio della collettività. Lo sarebbe se, con un peso fiscale corretto, essa fosse lì a far pagare i furboni.
Equitalia è al servizio dei furboni. Quelli che, siccome ingrassano con la spartizione politica delle risorse, pensano che il modo per fare cassa sia quello di spremere le persone più deboli e meno ricche della società.
Equitalia farà diventare i poveri ancora più poveri e i ricchi ancora più ricchi.
Equitalia ti porta via la casa perchè le devi 40.000 euro. Vendere la tua casa che ne vale 200.000 alla metà. Chi la compra la rivenderà a prezzo di mercato e farà un sacco di soldi.
Equitalia portà disuguaglianza.
Io non so quanto la gente starà a guardare.
Grazie per l'attenzione.

lunedì 23 maggio 2011

Il rating delle agenzie internazionali: ha un senso ciò?

Le agenzie internazionali di rating sono salite agli onori delle cronache negli ultimi anni in modo sempre più potente.
Le più conosciute sono Standard & Poor's; Moody's e Fitch.
Ogni tanto, nei mass-media nazionali, si sente parlare di loro.
Sono agenzie private statunitensi che si sono arrogate il diritto di stabilire la credibilità delle finanze degli altri paesi.
La cosa è veramente peculiare e per molti versi assolutamente paradossale.
Ma cosa ci sta succedendo sotto il naso?
Sotto il naso accade che, pian piano, si è creata una casta di singoli individui e organizzazioni che ormai si dichiarano i DEUS EX MACHINA della situazione.


Il vero problema della questione non è se questi signori abbiano o meno ragione.
Forse ce l'hanno o forse non ce l'hanno.
Il vero problema è l'influenza che le loro "opinioni" hanno sugli equilibri economico-politici mondiali.
La loro funzione ricorda un pò quella di chi, avendo autorità e potere, dichiarano una cosa e poi la realtà si conforma alla loro dichiarazione.
Se si continua a sostenere che una nazione è in difficoltà economica e finanziaria, con ogni probabilità si creerà un accordo generalizzato nel resto del mondo che le cose stanno così. E, credetemi, prima o poi quella nazione avrà difficoltà economiche e finanziarie, anche se prima non le aveva.
La cosa potrebbe essere fatta con chiunque e con qualunque cosa. La differenza è che, se si vocifera su un individuo, è meno semplice che ci sia un accordo collettivo e generalizzato perchè tale soggetto è facilmente identificabile.
Con le nazioni è tutto meno semplice, veramente meno semplice.
Non puoi sottoporre a verificare le "opinioni" di queste agenzie internazionali.
Che fare quindi?
Primo, sottrarre importanza a queste scale di rating. Che ci interessa che la Grecia è in classe AA o in classe A- o BBB? Cioè al 98% della popolazione che interessa questo?
Se avessi dei soldi da investire, posso rivolgermi ad un consulente o una struttura apposita che si preoccuperà di consigliarmi al meglio, prendendosi le proprie responsabilità.
Se voglio, se proprio voglio fare da solo, starà al sottoscritto smanettare con voracità fra giornali e siti economico finanziari per capire quale rating assegnare ai titoli di debito pubblico greci.
Sarà una mia opinione.
Non un'opinione di un'agenzia di rating che poi diventa, vera o meno, una verità assoluta.
Grazie per l'attenzione.

mercoledì 2 febbraio 2011

Come faccio ad iniziare un nuovo lavoro? (3a e ultima parte)

La scelta del posto in cui vivere e lavorare è fondamentale.
Mi spiace essere diretto e drastico ma occorre che ognuno di noi metta sul piatto della bilancia i 2 opposti obiettivi che spesso si fanno la guerra e faccia pendere l'ago da una parte o dall'altre.
In genere il successo lavorativo si contrappone agli affetti familiari. In un senso o nell'altro questi 2 obiettivi contrapposti, possono entrare in rotta di collisione.Ora non è detto che questo debba sempre e necessariemente accadere. E' possibile che qualcuno non si trovi dinnanzi alla continua scelta fra quali di queste 2 componenti della vita di una persona debba essere preferita o facilitata.
Potrebbe ma non è la consuetudine. Quindi parleremo di quando questi 2 obiettivi sono contrastanti.

Quindi, in un'ottica di cambiamento di lavoro/attività, bisogna interrogarsi a fondo su quali siano le nostre priorità.
In India vige un detto che recita "Quando non sai dove andare, qualsiasi strada va bene". Corretto, no?
Una volta chiarite le nostre velleità lavorative, probabilmente avremo anche chiarito il dilemma principale del cambiare lavoro. Che è sempre: lavoro autonomo lavoro dipendente? Questo dilemma non è roba da poco perchè la filosofia di fondo che dimora nelle 2 scelte è profondamente diversa e per molti aspetti antitetica.
Il lavoro dipendente può essere espresso come la volontà di porre il proprio tempo a disposizione di qualcuno affinchè si ottenga un prodotto o un risultato ottenendone un compenso monetario basato su questo parametro (il tempo).
Il lavoro autonomo può essere espresso come la volontà di utilizzare il proprio tempo per ottenere un prodotto o un risultato ottenendone un compenso monetario.
Nel primo caso il compenso monetario è prevedibile. Nel secondo caso no.
Nel primo caso vi è certezza di guadagno, nel secondo caso no.
Ma nel secondo caso vi è libertà e potenzialità che nel primo non sono contemplate.
Ovviamente ci sono molti aspetti particolari da esaminare. Lavori che appaiono come autonomi e che invece possono essere meglio riclassificati come dipendenti e viceversa.

Se dobbiamo spiegare come si inizia un nuovo lavoro, forse dovremmo rispondere a questa domanda differenziando la risposta per le 2 categorie di cui abbiamo parlato.
E di queste parleremo nei prossimi giorni.
Grazie per l'attenzione.

mercoledì 26 gennaio 2011

Come faccio ad iniziare un nuovo lavoro? (2a parte)

Cambiare lavoro è un trauma mentale ancor prima che sostanziale.
D'altronde i cambiamenti vengono patiti più a livello mentale che altro. Non è importante come le cose sono ma come le percepiamo.

Uno dei grandi problemi che il moderno sistema economico (quasi) globalizzato ha, è proprio il meccanismo della "flessibilità" del lavoro.
Ora si possono cambiare le idee e modificare le percezioni delle persone con un uso accorto delle parole.
Chiamare "flessibilità del lavoro" il fatto di licenziare facilmente qualcuno è una trovata che da sola meriterebbe un premio.
Come direbbe l'inviato delle Iene, Lucci, in Italia un premio non si nega a nessuno!
Sta di fatto che questo meccanismo della flessibilità dovrebbe essere rivisto in un'altra ottica. Ovvero l'ottica della sopravvivenza di una specie.
Da una parte, infatti, appare insensato questo continuo richiamo alla stabilità del lavoro e questa lotta alla precarietà. Se per lotta alla precarietà intendiamo uno sforzo collettivo (di autorità pubbliche, imprese, artigiani e lavoratori dipendenti) nel rimuovere dal sistema ogni fattore possa diminuire la capacità produttiva del sistema stesso compresi (e soprattutto direi io) i comportamenti disonesti o non etici, allora tutti saliremmo su questa barca.
Ma dire semplicemente che il lavoro non debba essere precario è come sostenere una banalità. Non è un concetto definito e in quanto tale ognuno ne darà un significato di parte e quindi scorretto.
Un agente di commercio, un proprietario di un piccolo negozio, un libero professionista sono (lette in una certa ottica) delle figure precarie. Non sanno quanto lavoro produrranno, non sanno quanto guadagneranno mese per mese, non sanno se riusciranno a campare la loro famiglia. Il mese inizia e non si sa quanto si raccoglierà dopo 30 giorni. Più precario di così!!
Qualcuno ovviamente capirà che questa metafora è forzata.
L'agente, il negoziante e il libero professionista saranno precari nella misura in cui il lavoro va male.
Il problema quindi non è il fatto di sapere che si avrà uno stipendio fisso per tutta la vita in un posto di lavoro che non cambierà mai. Non è questo il punto.
Il punto è che ci si sente precari quando non ha il minimo controllo sulla propria sfera lavorativa.
Se decido di fare il collaboratore in una struttura di ricerca o l'addetto ad un call center, la precarietà è il fatto che (a differenza dell'agente, del negoziante e compagnia cantante...) subisco completamente ogni decisione dell'amministrazione in merito al futuro di quella collaborazione. 
Ma stiamo fuggendo dal discorso.
Come si fa ad iniziare un nuovo lavoro?
1) La prima regola è il passaggio graduale. Ovvero è altamente consigliato evitare delle rotture brusche da un attività ad un'altra. E tanto più le 2 attività sono differenze e distanti e tanto più il passaggio deve essere graduale. Se lavoro come cameriera e decido di andare a lavorare come addetta delle pulizie, il passaggio può essere immediato. Ma se ho fatto il carpentiere e decido di andare a fare il venditore di contratti telefonici, è altamente sconsigliato chiudere con un'attività e iniziarne un'altra.
2) Il periodo di passaggio fra un lavoro e un altro ha un costo in termini di inefficienza. Nelle attività imprenditoriali si chiama "fase di start- up", in italiano avviamento. E come per un auto, i primi metri sono quelli più impegnativi per il motore a causa dell'inerzia del peso. Per superare questo periodo di passaggio, chi cambia lavoro deve mettere in conto questo costo ed avere una soluzione per esso. Ovvero avere qualche soldino che copra le necessità primarie accantonato o disponibile da qualche parte.
3) Nel cambio di lavoro sopperire alla carenza di esperienza nel nuovo lavoro con un incremento di conoscenza. Lo studio e l'esercizio possono sostituire la mancanza di esperienza diretta. Se non si è mai venduto, fare un corso sulle vendite può essere una buona soluzione. Lo studio non eguaglierà mai l'esperienza diretta. Ma c'è anche da dire che senza studio, spesso, l'esperienza diretta non porta ad una crescita. Ci sono persone che lavorano in una certa professione da anni ma anzichè migliorare con il tempo, imparano semplicemente a diventare "esperti" nel ripetere gli stessi errori. Questo perchè non si mettono mai in discussione con lo studio e l'apprendimento. Lo studio è meglio se effettuato presso contesti appositi ma anche la semplice lettura di libri specializzati nella formazione è di grande aiuto.
4) Il cambio di lavoro deve andare incontro al progresso della persona verso i suoi obiettivi nella vita. Un cambio di lavoro guidato solo dall'aumento di guadagno o da un fattore simile potrebbe essere un boomerang. La promesse di nuovi e più facili guadagni può attirare qualcuno verso mestieri nuovi o soluzioni strambe. Il cambio deve avere un senso ed essere allineato alla propria personalità fondamentale.

Si va bene tutto questo, abbastanza di buon senso. Ma pur sapendo quali errori non commettere nel cambiare lavoro, forse non stiamo rispondendo ad una domanda che potrebbe risultare fondamentale. Ovvero 
Si, però come individuo un nuovo lavoro?
Il mio lavoro non mi piace, non mi dà sicurezza/soddisfazione/successo sociale. Nella mia terra/città non c'è lavoro per nessuno. Cosa mi invento? Devo emigrare?

Di questo parleremo nella terza e ultima parte dell'articolo.
Grazie per l'attenzione.

lunedì 24 gennaio 2011

Come faccio ad iniziare un nuovo lavoro? (1a parte)

L'italiano medio è, di questi tempi, preoccupato per una quantità di fatti per la cui conta non bastano le dita di una mano. E neppure le dita dei piedi. Forse sommando tutte le dita di mani e piedi di tutti i suoi familiari + qualche volenteroso vicino potremmo avvicinarci alla realtà.
Il lavoro è certamente il PROBLEMA della stragrande maggioranza degli italiani. E per stragrande intendiamo circa il 60% della popolazione. Del restante 40% possiamo solo dire che il 18% è fatto da persone minori di 18 anni mentre il 20% ha più di 65 anni. Rimane un 2% per cui, a causa della propria agiatezza, il lavoro non rappresenta un problema.


L'Italia attraversa, dal nostro punto di vista, la peggiore crisi sociale da 35 anni a questa parte, da quel periodo chiamato anni di piombo in cui le tensioni sociali e classiste interne premevano contro lo stato dello stivale da una parte mentre la crisi energetica mondiale premeva dall'altra.
E, sempre dal nostro punto di vista, sebbene certi problemi siano, in un certo senso, ugualmente risolvibili la situazione si presenta peggiore rispetto a quei momenti degli anni '70 perchè meno vive sembrano che siano la forza e la dignità degli italiani.

Il lavoro rappresenta un buon 65/70% del tempo settimanale di cui siamo dotati. In molti casi il tempo passato a lavorare è anche maggiore. In ogni caso moltissimi fattori individuali e familiari dipendono dal lavoro.
Perchè?
Per quanto ci piace atteggiarci ad essere evoluti, possiamo solo dire che lo scopo principale di ogni essere umano è quello di garantirsi la sopravvivenza. E che ne risulta di concetti come l'etica, la spiritualità, la creatività, l'amore e così via?
Sono forse da dimenticare? Certamente no e il fondamento del nostro pensiero colloca questi fattori ad un rango di importanza maggiore rispetto alla materialità immediata. 
Ma rimane il fatto che la spinta innata di ogni essere umano è indiscutibilmente volta a cercare la propria sopravvivenza, comprendendo in quiest'ambito anche la sopravvivenza della propria famiglia e discendenza così come la sopravvivenza del proprio gruppo sociale.
Il moderno impegno nel lavoro diventa così qualcosa di simile alla lotta per la sopravvivenza del resto degli animali o dei nostri antenati meno civilizzati. Si usciva al mattino presto per procurarsi cibo e strumenti utili per se e per i propri figli. Si andava per i campi o per la jungla spinti da un istinto a procurarsi il sostentamento consci che là fuori è una lotta per la sopravvivenza.
Quanti di noi escono di casa con questa sensazione?

Cambiare lavoro è, secondo questo modo di vedere le cose, solamente un modo per reagire ad un improvviso calo di fonti di sopravvivenza. Se fossimo dei cavernicoli o una razza primitiva potremmo trovarci, ad un certo punto, ad osservare la nostra fonte d'acqua prosciugarsi o diventare poco sana. Potremmo assistere ad una siccità persistente che limita le risorse nuttizionali oppure essere colpiti da un flagello meteorologico tale per cui la ricerca di un nuovo posto risulta necessario.
Nessuno dice che sia bello dover cambiare lavoro nè che questo passaggio debba essere svolto canticchiando o semplicemente stringendo le spalle in una sorta di qualunquismo professionale.
Di certo ogni economia attraversa fasi e prima del disastro e della chiusura di un'azienda, di un'area o di un mercato vi erano stadi intermedi in cui si poteva intervenire con cure meno drastiche.

Ma, per quanto certi problemi è sempre meglio risolverli a livello globale o di gruppo, il discorso che possiamo mettere adesso in pista riguarda l'individuo.
Se il lavoro che facciamo adesso non funziona, che si fa? Se non ci garantisce i redditi che desideriamo, se non ci da la soddisfazione che riteniamo minima e rispettosa della nostra professionalità......
Ne parleremo nella seconda parte.
Grazie per l'attenzione.

venerdì 21 gennaio 2011

Le tasse: è giusto pagarle? (3a e ultima parte)

Concludiamo questa carrellata cercando di tirare le somme di quanto ci siamo detti.
In una nazione in cui vi è la necessità di servizi di utilità pubblica, tutti i cittadini sono tenuti a contribuire al costo complessivo di questi beni. 
Laddove non sia possibile stimare in quale parte questi servizi portino utilità al singolo cittadino e laddove si possa stimare che oltre l'utilità effettiva ci sia un'utilità potenziale, il costo dei servizi deve essere pagato da tutti i cittadini.
Citiamo il servizio di ordine pubblico svolto dai corpi di polizia.
Non vi è possibilità di stabilire in quale misura un cittadino fruisce di questa utilità. Sapere che la propria città è sicura e un corpo organizzato di polizia vigila su tutti non è suddivisibile. Su ognuno di noi ricade l'utilità potenziale di questo servizio sociale.
Lo stesso dicasi della scuola.
Il fatto che la scuola esiste e sia a disposizione di tutti è un'utilità potenziale per qualunque cittadino. Poco importa se abbiamo figli che vanno a scuola o meno. Potremmo averli e quindi potremmo usufruire di questo servizio. D'altronde questo, più che un costo, è anche (E SOPRATTUTTO diremmo noi!) un investimento e quindi uno stato (provate a dirlo all'attuale governo in carica se ci riuscite) non dobrebbe MAI e dico MAI lesinare soldi da devolvere alla costruzione dei pilastri del futuro ovvero la formazione scolastica delle nuove generazioni.

E' giusto quindi pagare le imposte!
Ed è giusto pagare anche le tasse cioè pagare per avere un servizio pubblico di utilità individuale.
Parliamo di pagare le tasse sui rifiuti, sulle prestazioni sanitarie non di emergenza e non indinspensabili e su tutte le concessioni che l'ente pubblico fa ad un individuo a discapito dell'intera comunità.
Sapevate, ad esempio, che lo stato italiano si fa pagare pochissimi soldi (veramente pochi) per dare alle imprese che imbottigliano l'acuqa minerale la concessione allo sfruttamento delle falda acquifere o delle fonti del nostro territorio?
Perchè queste aziende dovrebbero pagare poco per vendere un bene che è di tutti? Teoricamente l'acqua potabile dovrebbe giungere in tutte le case e ognuno dovrebbe pagare una quota per il consumo. Ma questa quota dovrebbe servire solo a coprire i costi per la fornitura del servizio e non comprendere fattori di lucro.
Nel prezzo della minerale che comprate ogni giorno, fatto 100 il prezzo di un litro di quell'acqua, il costo puro per la raccolta e imbottigliamento dell'acqua è molto, molto piccolo. Diciamo che costerà 1 o forse meno. Il resto sono costi di trasporto (certo se ci beviamo l'acqua che arriva dall'altra parte d'Italia), di pubblicità e puro lucro.

Esistono sicuramente delle tasse che non sono giuste in se e tasse che sono inappropriate come meccanismo di pagamento. Citiamo nel primo caso la tassa sul possesso di un televisore. Innanzitutto è una tassa subdola perchè spacciata per qualcosa che non è. La chiamano "canone RAI" ma non è un costo di abbonamento per la visione dei canali Rai. Piuttosto è una tassa sul possesso di un apparecchio radio-televisivo.Hai una tv o una radio a casa? Devi pagare! E a niente serve dire o argomentare che uno non guarda la Rai!
Forse potremmo anche accettare l'idea che si debba pagare per possedere uno strumento elettronico. Forse.
Sa molto di balzello medioevale (non dimentichiamo che questa tassa è stata creata in periodo fascista quando avere una tv o una radio era un lusso per ricchi!) ma se il costo fosse molto contenuto, potremmo anche accettarlo. Ho un bene di lusso e pago per il suo possesso. In cambio lo stato mi fornisce un servizio pubblico di informazione e formazione. Cioè mi mette in onda dei contenuti per cui ha un senso la tassa.
Ma se guardiamo i motivi per cui dobbiamo pagare la tassa sul possesso di una TV non si capisce cosa stiamo pagando.
Forse gli stipendi di tutti quelli che lavorano in Rai? E perchè sono tutte figure necessarie per i servizi di cui parlavamo prima? Ovviamente no, perchè la Rai svolge il suo servizio di utilità pubblica in misura molto molto marginale. Talmente marginale che molti strumenti di Internet oggi hanno soppiantato la necessità che la Rai esista. Su internet possiamo andare a visionare gli atti del parlamento, i decreti del governo, avere risposte, enciclopedie, sapere news da tutto il mondo, programmi culturali e di formazione e documentari a go-go.
Insomma si è capito l'antifona.

 Alcune tasse sono giuste ma il loro meccanismo di pagamento è scorretto. Il classico esempio è la tassa sui rifiuti. Che si paga in base alle dimensioni della propria casa o dal tipo di attività imprenditoriale che si svolge.
Solo una minima parte della tassa dovrebbe essere fissa e ripartatita in modo uguale per tutti. Il resto (la gran parte) dovrebbe essere pagata in proporzione alla produzione effettiva di riufti e non a quella potenziale.
Qualcuno dirà che è difficile farlo ma la difficoltà nella misurazione della produzione di rifiuti non è una scusante.
Occorre impegno e sicuramente un cambio drastico delle abitudini di vita ma è possibile, come dimostrato laddove piccole ma volonterose amministrazioni locali hanno provato soluzioni alternative.

In Italia attualmente il peso fiscale è pari a più della metà dei guadagni per gli autonomi e un pò meno della metà dei guadagni per i dipendenti. Questo mediamente. Il peso fiscale italiano è uno dei maggiori d'Europa e dell'intero pianeta, fatti salvi i paesi tipo "Repubblica delle Banane"- I servizi che lo stato italiano eroga sono immensamente al di sotto della soglia minima di decenza in molti settori. Lo stato prende più di quello che rende al cittadino.
E poi ci meravigliamo se gli italiani non vogliono pagare? Gli italiani onesti, intendiamo.
Perchè oltre questi vi sono gli italiani disonesti, e sono tanti, tantissimi, che non pagherebbero neanche se lo stato italiano e i suoi enti rendessero come servizio più di quanto prelevano. Costoro stanno troppo bene perchè vivono in un contesto in cui si sentono anche giustificati nel non pagare e in cui si confondono con le persone per bene vessate dal fisco.

Quale è la strada? Recuperare soldi dall'evasione fiscale? Solo in parte. Quello va fatto ma lo stato italiano (e quindi tutti noi che lo costruiamo collettivamente) deve dimostrare un cambio radicale con il passato.
Dovrebbe decidere di dare una svolta, abbassando il peso fiscale sulle spalle dei cittadini onesti.
Si inizia dall'abbassare il livello delle imposte e dal cancellare l'esistenza di molte tasse inique o esose.
Questo comporterà la mancanza di fondi per far funzionare le cose. Sicuro. Ma da lì si inizia, altrimenti non ne usciamo più.
E gli italiani, già abituati ad un pessimo servizio pubblico generale, se ne faranno una ragione sapendo che questo sarebbe solo provvisorio.
Meno tasse significa maggiore prosperità per i cittadini e alla fine per lo stato, che ritroverebbe i denari per far funzionare i suoi servizi. Non puoi tassare uno che non ha niente o ha poco. Il 50% di poco è poco. Il 25% di molto è molto. Non so se rendo l'idea.
Ma di possibili soluzioni all'attuale sistema fiscale, parleremo in un prossimo articolo.

Grazie per l'attenzione.

giovedì 20 gennaio 2011

Le tasse: è giusto pagarle? (2a parte)

Nel precedente articolo, abbiamo già illustrato che qualcosa che non va nel pagamento dei tributi (parliamo del nostro paese cioè l'Italia) c'è.
Esamiamo meglio questo concetto.

Se un gruppo di persone vive insieme ci sono dei costi comuni per dei servizi che non è possibile dividere in modo specifico per ognuno dei membri.
Se in un villaggio occorre costruire una diga, un muro di cinta questo è un bene a utilità collettiva. Non si potrà dire che questo ne beneficia più di quell'altro.
Se parliamo di uno stato, servizi pubblici come la polizia, la magistratura e via discorrendo servono proprio per far funzionare le cose.
Esistono paesi, ad esempio gli Stati Uniti, in cui certi servizi non vengono considerati pubblici come la sanità.
In Italia la sanità è pubblica e il servizio è esteso in automatico per tutti i cittadini italiani e non solo. Negli Stati Uniti sei coperta da protezione e cure sanitarie solo se hai pagato la copertura assicurativa.
Potremmo discutere quale delle 2 opzioni sia giusta ma non è questo il momento e ci porterebbe troppo fuori tema.
Sta di fatto che un servizio pubblico ha un costo e qualcuno lo debba pagare.
L'opinione di questo blog è che tutti i cittadini di uno stato debbano contribuire ad un servizio pubblico ma che occorra creare dei meccanismi di ri-equilibro per evitare che ci siano persone che usufruiscono del servizio in maniera eccessiva e che ci siano persone che non usufruiscono di nessun servizio pagando profumatamente.

Quindi è giusto pagare le tasse e le imposte? Certo, e non ci si dovrebbe neppure porre il problema.
Qualcuno parla di evitare di pagare le imposte come segno di disubbidienza civile.
Può essere un sistema ma solo quando è correlato da un'effettiva volontà di voler cambiare le cose. Penso che la cosa abbia un senso solo se accompagnata da effettive e continue azioni concrete che vadano a ribadire alla collettività l'ingiusto squilibrio delle imposizioni fiscali. Si, insomma, cortei, manifestazioni, forum, passaparola, associazionismo, comunicati, spazi web esplicativi, incontri con le autorità politiche e le altre associazioni civili. Quindi non solo non pagare le tasse e le imposte.

In Italia, come praticamente ogni altra parte del mondo, esiste il principio della contribuzione fiscale proporzionale al reddito in misura crescente. Ovvero più guadagni e più alta è la percentuale di quanto tu devi versare al fisco. A prima vista il concetto che i ricchi paghino più tasse (consentitemi questa semplificazione verbale per non essere pesante nell'esposizione) sembrerebbe un concetto molto democratico ed equo.
Ma sovente quello che sembra giusto ed equilibrato sulla carta non lo è nella realtà.
La realtà, quello spazio in cui le cose avvengono per davvero, è qualcosa di estremamente complesso. Non è infrequente che fattori molto importanti nella scena sfuggano alle verifiche e vadano a rovesciare l'esito delle soluzioni proposte.
Che chi più guadagna, più debba pagare i costi dei servizi collettivi potrebbe (dico potrebbe perchè qualche altra cosa da aggiungere vi sarebbe) essere qualcosa di equo e socialmente corretto se questo avvenisse in un contesto di sistema economico fondato in misura altrattanto precisa sull'equità e sulla giustizia sociale.
Una società in cui i redditi delle persone provenissero dalle loro abilità e capacità, dal loro talento, inventiva, tenacia e persistenza. Una società in cui non ci fossero barriere lobbistiche a che le persone meritevoli potessero giungere a ricoprire posti e ruoli coerenti con il loro bagaglio professionale.
Il concetto che chi guadagna di più, di più debba essere tassato è fondamentalmente di stampo giacobino prima e marxista poi. Sembrerebbe corretto prendere a chi ha di più ma vorrei sottolineare un concetto fondamentale.

Nella società esistono delle persone che, per vitalità, intraprendenza e abilità, riescono a portare avanti le cose. Creano società imprenditoriali, aprono fabbriche negozi o creano prodotti o inventano servizi. Migliorano il mondo, creano produzione. Permettono a molti di avere un lavoro. Ci sono gli artisti che grazie al loro lavoro creano un futuro per la loro società. 
Una società vive e prospera sul lavoro delle persone etiche e attive. Una società avvizzisce a causa dei parassiti, dei disonesti o delle persone che non fanno niente.
Esiste una regola generale che una società ottiene ciò che premia o privilegia mentre vede allontanarsi ciò che combatte o penalizza. Premiare le persone produttive, le attività etiche e le iniziative creative porta a maggior produzione, etica e creatività. Penalizzare il parassitismo e la disonestà, porterà ugualmente a comportamenti virtuosi. 
Ora nessuno intende dire che è utile abbandonare le persone indigenti o distruggere chi non fa niente. La regola è rivolta a dei comportamenti e non a degli individui.
Penalizzare il parassistismo o il guadagno tramite attività distruttive, non significa che si porti avanti una crociata morale contro chi lo sta facendo.
Occorre avere rispetto per tutti i lavoratori e mai e poi mai questo blog assumerà posizioni di elogio tout court del capitalismo contro i lavori meno pagati e più umili. Anzi.
Il capitalismo è un sistema che premia il parassitismo e penalizza la creatività e il talento.
Fare i soldi con i soldi non ha nessun prodotto di valore da distribuire nella società.
Il capitalista non è l'imprenditore che mette su l'azienda. Il capitalista è qualcuno che lavora con i capitali.
Marchionne è un capitalista come la famiglia che lo ha messo lì, per fare un esempio.
Un manager che dirige un azienda che guadagna centinaia di migliaia di volte lo stipendio di un operaio non è qualcosa di equo. Esiste un'asimmetricità enorme anche nel meccanismo di premio del lavoro di costui.
Ma anche questo adesso ci porterebbe troppo fuori tema. E non preoccupatevi che torneremo sull'argomento.

Concludiamo l'articolo (rimandando la conclusione di tutto questo discorso alla terza e ultima parte) dicendo che la grande riforma fiscale sarebbe in realtà la riforma del meccanismo delle entrate di una persona.
Un economista e professore universitario di nome Vitaletti propose, tra le sue varie proposte, una diminuzione del peso delle imposte sul reddito a favore di un aumento del peso delle imposte sul consumo. Ovvero più soldi in busta paga con IRPEF più leggere se non quasi nulle e costi maggiori sull'IVA, con scaglioni differenziati in base all'uso necessario o voluttuario dell'oggetto.
In questo modo tutti avrebbero guadagnato di più e i soldi per i servizi pubblici sarebbero arrivati prelevandoli in maniera volontaria (chiunque può decidere di spendere in un oggetto o risparmiare) dal consumo.
Questo avrebbe stimolato la produzione e il risparmio e penalizzato il consumo (o sperpero in certi casi). Soprattutto per i beni di lusso.
Ovvero quei beni che solo i ricchi possono comprare, creando nuovamente una sorta di giustizia sociale e fiscale.
Ma l'articolo si è fatto lungo.
Vi ringrazio per l'attenzione e vi aspetto nella terza parte.
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