L'italiano medio è, di questi tempi, preoccupato per una quantità di fatti per la cui conta non bastano le dita di una mano. E neppure le dita dei piedi. Forse sommando tutte le dita di mani e piedi di tutti i suoi familiari + qualche volenteroso vicino potremmo avvicinarci alla realtà.
Il lavoro è certamente il PROBLEMA della stragrande maggioranza degli italiani. E per stragrande intendiamo circa il 60% della popolazione. Del restante 40% possiamo solo dire che il 18% è fatto da persone minori di 18 anni mentre il 20% ha più di 65 anni. Rimane un 2% per cui, a causa della propria agiatezza, il lavoro non rappresenta un problema.
L'Italia attraversa, dal nostro punto di vista, la peggiore crisi sociale da 35 anni a questa parte, da quel periodo chiamato anni di piombo in cui le tensioni sociali e classiste interne premevano contro lo stato dello stivale da una parte mentre la crisi energetica mondiale premeva dall'altra.
E, sempre dal nostro punto di vista, sebbene certi problemi siano, in un certo senso, ugualmente risolvibili la situazione si presenta peggiore rispetto a quei momenti degli anni '70 perchè meno vive sembrano che siano la forza e la dignità degli italiani.
Il lavoro rappresenta un buon 65/70% del tempo settimanale di cui siamo dotati. In molti casi il tempo passato a lavorare è anche maggiore. In ogni caso moltissimi fattori individuali e familiari dipendono dal lavoro.
Perchè?
Per quanto ci piace atteggiarci ad essere evoluti, possiamo solo dire che lo scopo principale di ogni essere umano è quello di garantirsi la sopravvivenza. E che ne risulta di concetti come l'etica, la spiritualità, la creatività, l'amore e così via?
Sono forse da dimenticare? Certamente no e il fondamento del nostro pensiero colloca questi fattori ad un rango di importanza maggiore rispetto alla materialità immediata.
Ma rimane il fatto che la spinta innata di ogni essere umano è indiscutibilmente volta a cercare la propria sopravvivenza, comprendendo in quiest'ambito anche la sopravvivenza della propria famiglia e discendenza così come la sopravvivenza del proprio gruppo sociale.
Il moderno impegno nel lavoro diventa così qualcosa di simile alla lotta per la sopravvivenza del resto degli animali o dei nostri antenati meno civilizzati. Si usciva al mattino presto per procurarsi cibo e strumenti utili per se e per i propri figli. Si andava per i campi o per la jungla spinti da un istinto a procurarsi il sostentamento consci che là fuori è una lotta per la sopravvivenza.
Quanti di noi escono di casa con questa sensazione?
Cambiare lavoro è, secondo questo modo di vedere le cose, solamente un modo per reagire ad un improvviso calo di fonti di sopravvivenza. Se fossimo dei cavernicoli o una razza primitiva potremmo trovarci, ad un certo punto, ad osservare la nostra fonte d'acqua prosciugarsi o diventare poco sana. Potremmo assistere ad una siccità persistente che limita le risorse nuttizionali oppure essere colpiti da un flagello meteorologico tale per cui la ricerca di un nuovo posto risulta necessario.
Nessuno dice che sia bello dover cambiare lavoro nè che questo passaggio debba essere svolto canticchiando o semplicemente stringendo le spalle in una sorta di qualunquismo professionale.
Di certo ogni economia attraversa fasi e prima del disastro e della chiusura di un'azienda, di un'area o di un mercato vi erano stadi intermedi in cui si poteva intervenire con cure meno drastiche.
Ma, per quanto certi problemi è sempre meglio risolverli a livello globale o di gruppo, il discorso che possiamo mettere adesso in pista riguarda l'individuo.
Se il lavoro che facciamo adesso non funziona, che si fa? Se non ci garantisce i redditi che desideriamo, se non ci da la soddisfazione che riteniamo minima e rispettosa della nostra professionalità......
Ne parleremo nella seconda parte.
Grazie per l'attenzione.